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“L’alzaia” di Telemaco Signorini, 1864

Nella parola italiana “lavoro”, che deriva dal latino “labor”, c’è una dignità che non si trova in altre lingue affini alla nostra, come nel francese “travail” e nello spagnolo “trabajo”. Questi ultimi termini, infatti, esprimono in modo assai più efficace dell’italiano ciò che il lavoro era, e spesso è ancora, vale a dire sforzo, sofferenza, fatica; “travaglio”, appunto.
Telemaco Signorini (1835-1901) volle rappresentare questo travaglio in un quadro che, pur appartenendo oggi ad un collezionista privato, non è raro vedere in occasione di mostre ed esposizioni: “L’alzaia”, del 1864. Le alzaie sono i camminamenti lungo gli argini dei canali o dei fiumi dai quali un tempo uomini o animali tiravano per mezzo di funi o cinghie le chiatte su cui venivano trasportati merci o altri materiali pesanti. Tutte le grandi città, compresa la nostra Bologna, erano fornite di una rete più o meno ampia di canali e navigli atti al trasporto di carichi pesanti. L’arrivo delle ferrovie renderà superflua questa rete che sarà quasi interamente colmata o “intombata” per ottenere più praticabili e comode strade. Trascinare le zattere era lavoro da animali da tiro che spesso però veniva svolto da uomini. Quale dignità, quale “nobiltà” poteva esserci in quel “lavoro”? Telemaco Signorini, che oltre ad essere un valentissimo pittore, tra i fondatori del movimento dei Macchiaioli, fu scrittore, giornalista e critico d’arte, con “L’alzaia” volle rappresentare proprio questo, e cioè che il lavoro non sempre, e forse anzi quasi mai, “nobilita” l’uomo, ma, al contrario, quando è solamente fatica, tormento, strazio, lo abbrutisce, lo rende simile alle bestie. Ed esauste e rassegnate come bestie sono le cinque figure in primo piano, piegate dallo sforzo di opporsi alla corrente del fiume (la scena si svolge sull’Arno), l’incedere quasi per inerzia, le corde che segano petti ed ascelle, la pelle scura, bruciata dal sole. L’avvento imminente della industrializzazione li riscatterà da quel giogo e farà loro acquisire consapevolezza della propria forza, se uniti.  Ma allora, nel 1864, in Italia tutto questo era ancora di là da venire.  Sullo sfondo un uomo, un borghese, vestito un po’ all’antica anche per quegli anni, con un’alta tuba, un lungo pastrano e le ghette, guarda romanticamente un paesaggio invero non esaltante, tenendo saldamente per mano una bambina tutta trine, nastri e merletti, e neppure lei è incuriosita dalla fatica terribile dei lavoratori. L’unico ad accorgersi di quei derelitti è il cagnolino, minuscolo, che abbaia o ringhia verso di essi tenendosene a debita distanza… Come nelle “Vittime del lavoro” di Vincenzo Vela vi è dunque rassegnazione in quest’opera, ma vi è anche denuncia sociale: la denuncia dello sfruttamento e dell’indifferenza della classe agiata che, mentre pensa ad elevare il proprio spirito, non si preoccupa minimamente delle condizioni disumane in cui versano i poveri, ai quali, letteralmente, volta le spalle.

"I battellieri del Volga" - opera pittorica - Ilja Repin - 1873

“I battellieri del Volga” – opera pittorica – Ilja Repin – 1873

“L’alzaia” avrà un epigono, nove anni dopo, nel 1873, ne “I battellieri del Volga”, oggi al Museo Russo di San Pietroburgo, di Ilja Repin (1844-1930), esponente del realismo russo, in cui la scena dei traghettatori umani è ripresa da un’altra angolazione, di fronte, ma con la medesima drammaticità dell’opera dell’artista italiano. Anche qui gli uomini, stravolti e abbrutiti dallo sforzo immane, paiono bestie perché svolgono un lavoro da bestie e il loro riscatto sembra lontano anni luce. Luciano Canfora, in un articolo a commento di questo quadro, li ha paragonati ai “minatori dell’antico Egitto, di cui uno storico greco ha scritto che avrebbero scambiato volentieri la vita con la morte”. Ma quando, di lì a non molti anni dopo, quell’umanità emarginata e negletta si solleverà, provocherà uno degli sconvolgimenti sociali più profondi che la storia ricordi, la Rivoluzione Sovietica.

©di Corrado Calò